Il dolore psicologico è una ferita

Il dolore è una condizione senza tempo, e non solo perché appartiene ad ogni epoca e ad ogni fascia di età, ma anche per via del fatto che nella sofferenza siamo sospesi. Ancorati al presente senza viverlo – un presente che non è più fatto di momenti che si succedono, ma è immobile nell’assenza di progettualità – ogni cosa ci appare lontana e indefinita. Persino il passato, che non può che appartenerci, ci diventa estraneo, perché non ci riconosciamo più in ciò che eravamo prima che il dolore ci investisse col suo urto silenzioso.

Niente, più del dolore, ci spinge dentro di noi, facendoci rivolgere lo sguardo al nostro interno. È come se il dolore ci privasse in qualche modo dei sensi, della possibilità di orientarci nel mondo: il nostro sguardo non si posa più su nulla, perdiamo il gusto delle cose, gli odori smettono di essere evocativi (se non di altro dolore), il suono ovattato delle parole non riesce a raggiungerci.

Il dolore deve poterci insegnare qualcosa, e questo può accadere solo se lasciamo che il dolore ci attraversi, dopo aver rotto col suo violento urto quell’involucro interiore in cui ci sentivamo custoditi. Nessun decalogo, soluzione pratica o rimedio fai da te può sostituirsi al tempo necessario che la sofferenza richiede, un tempo interiore.

L’autoconsapevolezza e la cultura, intesa come conoscenza, non possono che originare da quello squarcio nel nostro involucro, una ferita che è affaccio sulla profondità della vita e che è destinata a diventare cicatrice, se è vero, come dice Dostoevskij, che il soffrire passa ma l’aver sofferto non passa mai.

Le cicatrici sono segni sulla nostra pelle, che è il confine tra il dentro e il fuori. Le feritoie, aperture nelle fortificazioni per difendersi dal nemico, sono anche fonti di luce e di aria in ambienti chiusi. Una ferita che diventa feritoia resta aperta: per respingere il dolore come nemico o per facilitare, grazie a luce e aria, la cicatrizzazione.

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